Nella foto Gianfranco Angelucci all'Arena.
Dopo essere stato ospite all'Arena, Gianfranco Angelucci, sceneggiatore, scrittore, regista, amico ed ex Presidente della Fondazione Fellini ha scritto questo articolo per il giornale on line dei giornalisti Agenda 21
La linea gotica passava esattamente in questo campo, trasformato nell’Arena delle Balle di Paglia. “Di qua e di là del fiume Senio si combattevano i tedeschi e gli americani, distruggendo tutto, radendo al suolo ogni casa. Cotignola era stata completamente annientata dai bombardamenti, una landa desolata di macerie. In piedi non era rimasto più nulla – racconta Ilva. – Sono nata nel ’50, unica femmina di quattro figli. La sera quando gli uomini andavano all’osteria, io rimanevo in casa con mia mamma e lei mi raccontava la guerra, con tutto quello che era successo. Conosco la guerra meglio di un libro di storia, mia madre parlava e io imparavo, sapevo cos’era successo in ogni casa, in ogni podere, a ogni contadino, sapevo l’orrore che la guerra porta con sé. E la povertà, la fame, la disperazione. Eravamo di una povertà che non si può descrivere, me la ricordo bene, uno spettro che ho davanti agli occhi e non posso cancellare.
Fame su fame. Perché i miei genitori appartenevano a famiglie di braccianti che avevano appena l’indispensabile per sopravvivere. Mamma mi raccontava i pianti che s’era fatta quando dopo la terza elementare suo padre le aveva detto che non avrebbe più potuto andare a scuola, dove era bravissima, la migliore di tutti: ‘Sina, non abbiamo i soldi per mandarti a scuola, tu devi lavorare, c’è bisogno di te qui, non ce la facciamo a tirare avanti’. E lei Teresina piangeva desolata, inconsolabile, tanto era il dispiacere, tanto la mordeva la sete di studiare. Che non ha mai saziato.
Nella mia casa non c’erano i soldi per mangiare, eppure non mancavano i giornali la domenica, e neppure i giornaletti per noi bambini. La lettura era sacra, apprendere qualsiasi cosa era il nostro unico piacere, il nostro gioco. Quanto ho imparato io da mia madre! E ancora è così, benché abbia novantacinque anni, e mio padre Innocenzo detto Gino abbia oltrepassato i cento. Due persone forti come querce, capaci di superare ogni ostacolo, ogni avversità. Hanno attraversato periodi che oggi neanche ce li sogniamo, il nostro paese ridotto in polvere e la necessità di rimettere insieme i pochi cocci”.
Ilva è una bellissima donna, con il viso ancora liscio delle ragazze e gli occhi brillanti di intelligenza, di sentimento, di un inestinguibile fuoco interiore. Per decenni è stata la sindacalista dei braccianti, alla CGIL, l’unica donna che contava al pari degli uomini, un’intera vita spesa a battersi per i loro diritti. E anche adesso che “non ho più l’età e la passione si è un po’ affievolita”, non si tira certo indietro; senza apparire lavora più di prima. “E’ stata la mia missione e sono contenta, però la vera aspirazione sarebbe stata fare l’avvocato. Ma non c’erano i soldi per studiare. Non fa niente, l’ho fatto lo stesso, a modo mio, difendendo chi non aveva voce in capitolo. Non ho nessun rimpianto, sarei stata un buon avvocato, e sono stata un’ottima sindacalista, amata da tutto il paese, perché se mi metto dentro un’impresa, ci butto il cuore. Non puoi sapere quanto ho letto, viaggiando sui treni tra Cotignola e Roma, e la sera in camera invece di dormire! Dovevo prepararmi per combattere alla pari, dovevo sapere, e l’unica strada era leggere, informarmi, stare al passo. Quanto ho imparato leggendo! Riviste, libri, codici, divoravo ogni pagina che mi veniva a tiro e non mi sono ancora tolta il vizio”.
Ilva parla mentre intorno a noi ferve la festa, migliaia di persone si assiepano al banco delle piade che spandono dalla piastre il profumo intenso e caldo da stordire. Il pubblico si affolla agli spettacoli disseminati in gran quantità, tante ‘arene’ di paglia: giovani, anziani, intere famiglie con i bambini che corrono felici e liberi ovunque, coppiette, artisti, allegre comitive, gruppi di amici. Arrivano a piedi sull’alzaia costeggiando il fiume, e appena giunti si disperdono fra le mille attrazioni come una volta alla fiera; ma qui è la fiera dell’intelligenza, della cultura, dell’arte, del divertimento che espande l’anima.
Scende la sera, giganteschi globi colorati creano oasi di chiarore cangiante, strappano riflessi alla paglia dorata; e come sciami di lucciole palpitanti, gli spettatori si inoltrano nell’intreccio di sentieri aperti tra la vegetazione, facendosi strada con le lucette dei telefonini, seguendo il saliscendi dei viottoli, un cammino surreale sull’argine del fiume pronto a rivelare ad ogni stazione inaudite sorprese di poesia, di musica, di misteri.
E’ la festa d’estate più fantasmagorica in cui abbia mai partecipato; invenzione visionaria di un personaggio generoso e instancabile, Mario Baldini, che è stato capace di scorgere nelle balle di paglia l’architettura effimera di un bizzarro teatro ‘diffuso’ in uno sterminato spazio all’aperto, l’offerta della merce più pregiata: creatività, estro, intrattenimento.
Nono anno: Felliniani e filosofi di campagna, recita il titolo di questa edizione ispirata al più osannato dei registi, al più celebre dei romagnoli, Federico Fellini, di cui viene riportata una scanzonata citazione:
«Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Ne sono lunsingato. Cosa intendano gli americani con “felliniano” posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto».
Un omaggio globale non tanto all’aspetto pittoresco, immaginifico, circense dei tanti individui che gremiscono l’Arena, e che avrebbero forse potuto aspirare a un ruolo nei film del Maestro, bensì, ancora prima e meglio, a quella ‘corda pazza’ che rende così unici i romagnoli: il gusto della scoperta, dell’invenzione, della trasformazione, della novità, della ricerca inesausta di dimensioni inesplorate. Un’ebollizione che non conosce sosta, un desiderio di vita simile a una colata di lava incandescente.
Sono stato chiamato a parlare di Fellini, al “Ridotto delle balle”, compatti sediloni di paglia disposti a esedra con geometrica eleganza, un abbraccio dorato da cui lasciarsi avvolgere amorevolmente. Non volevano da me null’altro che parole, come quando in altri tempi ci si raccoglieva d’inverno intorno alla rola, il camino acceso, ad ascoltare le storie che venivano narrate da chi le sapeva, mentre le ‘monachine’ salivano lungo la cappa. Anche quelle già una favola nella favola. Ricordate La voce della Luna, l’ultimo film di Fellini? Ivo Salvini, il personaggio squinternato interpretato da Roberto Benigni, che sapeva decifrare il sussurro dei pozzi e si innamorava di una ragazza che aveva il volto della luna, si interrogava di fronte al fuoco: “Ma dove vanno tutte quelle scintille? Il fuoco, quando si spegne, dove va? Come la musica, che nessuno sa dove va quando finisce. Quante idee mi vengono a stare qui, nonna. Ma volano via: come quelle scintille. Come si fa a fermarle, nonna? Tu ci riesci?”
La vita come mistero, se hai gli occhi per scorgerlo, e se il poeta ti aiuta nell’impresa. Scrive lo scienziato Carlo Rovelli nel suo ultimo bellissimo libro intitolato L’ordine del tempo: “Forse una radice profonda della scienza è la poesia: saper vedere al di là del visibile”.
La narrazione di Fellini, della sua vicenda umana, della sua arte, dei suoi film, è volata via tra le balle di paglia trascinando il crepuscolo come un sipario leggero, e quindi la sera trapunta di emozioni; tutti noi protesi a fantasticare l’impalpabile verità di un artista-mago capace di illuminare la vita ad ogni film.
Nello spazio più ampio, chiamato “Palco Arena”, stava per iniziare lo spettacolo del Circo Paniko, artisti nomadi che girano l’Italia incantando le piazze: acrobati, saltimbanchi, clown, giocolieri, comici e ballerini, in grado di agguantare lo spettatore e tenerlo avvinto allo stupore che non conosce età. Altrove, ogni giorno della manifestazione, vanno in scena fino a notte tarda incontri e spettacoli, cantastorie, la golena dei poeti, i film su schermi che forano il buio, gli ensemble musicali, e le spericolate lectio magistralis, compresa la critica filosofica dell’asparago di campagna. In una vecchia casa colonica riadattata, si può assistere alla video istallazione di Franceschetti e Carloni, una inquietante metafora sulla morte di Mussolini; sotto una capanna di frasche, Stefano Brienza propone invece un campo di grano rovesciato, spighe che scendono dal soffitto sfiorando la nostra testa, “linea di fusione tra cielo e terra”. Altre innumerevoli attrazioni si avvicendano fino alla conclusione della festa, che dura sei giorni, con il gran ballo finale. Un’autentica sbornia di nettare e ambrosia.
Mentre seguivo Ilva in quel dedalo di tentazioni notturne, fra i tanti ragazzi che prima dell’alba si sarebbero addormentati abbracciati, stretti nei sacco a pelo, protetti dalle balle di paglia sotto il cielo stellato, ripensavo alla guerra. Alla linea gotica che era passata su questi campi, sotto i nostri piedi, e ai feroci combattimenti fra tedeschi e Alleati nell’inverno del 1944 – 45, proprio sul fiume Senio, fino a quando il 10 aprile l’ VIII Armata britannica era riuscita a sfondare il fronte. Pensavo ai settanta anni di pace che ne erano seguiti, mai un periodo tanto lungo nella storia del nostro continente, in cui le madri non hanno dovuto piangere i propri figli, né i figli i propri padri in una catena di dolore ininterrotta.
Ripensavo alla povertà di cui parlava Ilva, la moglie di Mario e sua complice di ogni follia, ma con il piglio dell’ azdora, inconfondibile divinità di queste contrade. Pensavo all’indigenza, alle privazioni, alla miseria che settanta anni di pace avevano prodigiosamente trasformato in ricchezza e prosperità; e la Romagna, la derelitta fra le regioni, diventata la più agiata d’Italia, inondata di benessere, con una altissima qualità di vita, di scolarità, di assistenza medica. La Romagna che oggi sembra la California, con le sue strade dritte dell’antica centuriazione, i campi a vista d’occhio rigogliosi di ogni raccolto, la natura benigna, i paesaggi di rara dolcezza, le rocche, le città d’arte, le motociclette rombanti, il lavoro strenuo per tutti, e la festa che segue alla fatica, irrinunciabile: la gioia contagiosa della popolazione, l’ospitalità, il suo cibo sano e saporito, le sue spiagge accoglienti, miraggio di tanti popoli della Terra.
Pensavo che settanta anni di pace hanno partorito questo miracolo sotto i nostri occhi, di cui l’Arena delle balle di paglia appare la più umile e nobile celebrazione, anzi la rappresentazione plastica di cosa siano capaci gli uomini in tempo di pace se dotati di cultura, intraprendenza e fantasia. E vorrei dire a chi non crede nell’Europa Unita di venire in Romagna a toccare con mano cosa vogliono dire settanta lunghi anni di pace sotto una stessa bandiera, che i giovani hanno già impugnato; una conquista di civiltà che nessuno osi toccare.
Gianfranco Angelucci
Pubblicato nel giornale on line Agenda 21 il 20 luglio 2017